V
Domenica di Pasqua
1Gv 3,18-24
Figlioli,
non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. Da questo
conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro
cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e
conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla,
abbiamo fiducia in Dio; e qualunque cosa chiediamo la riceviamo da lui perché
osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che è gradito a lui. Questo è
il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci
amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi
comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in
noi: dallo Spirito che ci ha dato.
Gv 15,1-8
Io sono la vera vite e
il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie
e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete
gia mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come
il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così
anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me
e io i
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Il significato di
questa parabola non risiede tanto nella produttività o meno del tralcio –
interpretazione che è influenzata dalla nostra mentalità occidentale,
efficientista – quanto sul fatto che “senza di Lui non possiamo fare
nulla”. Quindi sul legame, sul rapporto vitale che sta alla base della nostra
stessa vita: la comunione con Dio che è di tipo intimo, vitale. “Rimanere”
è, infatti, verbo mistico in Giovanni, verbo che indica intimità, profonda
comunione, verbo che è frutto di due libertà (per questo in secondo piano
potremmo scorgere anche il rapporto fra Grazia, libertà e salvezza
dell’uomo). Qui la religione è descritta non come una serie di leggi o regole
da osservare, di norme da rispettare, quanto piuttosto come un rapporto vitale
fra Dio e l’uomo. Ed è questo il centro di questa parabola. Più intensamente
viviamo questo rapporto e più ricca, più feconda e meravigliosa diventerà la
nostra stessa vita. Inoltre ciò che è rappresentato è la realtà del “corpo
mistico”, di tutti coloro che sono inseriti in Dio, perfino chi non ne ha
coscienza esplicita. Essa ci dice che da qualche parte noi siamo radicati, che
non siamo isolati e frutto di un qualcosa di sconosciuto o di inspiegabile,
sorto casualmente nell’evoluzione del cosmo. Ci è data poi una chiave di
lettura diversa della sofferenza, vista come potatura e rinuncia - al superfluo
- sempre in favore di una ricchezza più grande. Perciò quando Gesù ci chiama
tralci non lo fa per sminuire la nostra importanza ma per sottolineare la cura
del Padre nei nostri confronti. La nostra vita di fede ha la sua sostanza nel
rapporto vitale e attuale con Dio. Il rapporto dell’uomo con Lui è sempre
presentato, nei Vangeli, attraverso parabole di crescita, di sviluppo, dove, se
anche la fede può essere implicita, non così le opere dell’amore che devono
essere reali ed esplicite. Anche la prima lettura può aggiungere un dato
ulteriore su quanto detto: “Dio è più grande del nostro cuore” cioè Egli
ha una visione più ampia, più larga, più spaziosa e più profonda di noi
delle cose, ed è perciò capace di far nascere il bene anche dal male che,
purtroppo, compiamo o subiamo. Egli ha una visione completa (della vigna e
d’ogni tralcio), conosce la nostra esistenza. E sapere che qualcuno, Qualcuno
che ci ha creati e ci ama, ha un cuore più grande del nostro, non può che
invitarci ad ampliare e dilatare il nostro cuore. Certo il riconoscimento della
colpa deve esserci ma anche la fiducia in Dio. Questo crede la nostra fede e
questo ci ricorda la stessa struttura della Messa che non è casuale ma ha uno
scopo ben preciso. All’inizio c’è infatti l’atto penitenziale ma subito
dopo c’è l’ascolto della Parola, l’apertura alla speranza, la memoria
delle Sue gesta e del Suo amore, la comunione con Lui. Una domanda importante
sulla nostra fede sembra allora emergere dalla prima lettura: cosa ha più peso
dentro di noi, cosa conta di più? La fiducia nella grazia di Dio oppure la
sfiducia a nostro riguardo?